La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 33005 del 2021 si è pronunciata sulla complessa tematica della liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale.
La quaestio portata all’attenzione della Corte traeva origine da una richiesta risarcitoria avanzata dai ricorrenti nei confronti dell’Asl territorialmente competente, per i danni patiti a seguito della perdita di un proprio congiunto, a causa di un errore sanitario.
Punctum dolens è da rinvenire nella individuazione del criterio in base al quale procedere alla liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale.
In via preliminare, è necessario chiedersi: “Cos’è il danno da perdita parentale”? Esso può essere definito come la sofferenza patita dai congiunti per la perdita di una persona cara, a causa di un fatto illecito di terzi.
Si tratta di una fattispecie che si colloca nell’ampia categoria dei danni di natura non patrimoniale: il fatto del terzo produce nella sfera giuridica dei familiari la lesione di diritti costituzionalmente tutelati, tra i quali figura il diritto allo sviluppo della propria personalità, mediante la coltivazione dei legami affettivi e familiari, di cui al combinato disposto degli artt. 2, 29 e 30 della Costituzione (in tal senso, Cassazione n.ro 907 del 2018) .
La dottrina maggioritaria, in un primo momento, negava il ristoro del danno da perdita del rapporto parentale, sulla base dell’assunto che i nocumenti patiti dai congiunti non possano essere risarciti per l’assenza del nesso di causalità, in quanto il risarcimento è accordato per i soli danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’illecito, secondo l’art. 1223 c.c. nonché per l’assenza dell’elemento soggettivo in capo al danneggiante, il quale non avrebbe potuto conoscere ex ante le ripercussioni negative subite dai congiunti.
La tesi in esame, nel negare il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, utilizzava impropriamente la locuzione di “danni da rimbalzo”, con il chiaro intento di non espandere ulteriormente i confini della responsabilità civile, onde evitare che l’illecito possa divenire una fonte di facile locupletazione.
La dottrina più recente ha criticato in toto l’apparato argomentativo che negava l’ingresso alle pretese risarcitorie dei congiunti veicolate iure proprio. La Corte di Cassazione, con le note sentenze numero 8827 e 8828 del 31 maggio 2003, evidenziava come la nozione di “danni da rimbalzo” sia palesemente atecnica, ravvisando nella morte cagionata da terzi ad una persona, due pregiudizi immediati e diretti che impattano contestualmente le prerogative della persona scomparsa e dei suoi cari.
Invero, da un lato, risulta vulnerata l’incolumità personale della vittima, dall’altro, e contemporaneamente, risulta leso il diritto all’intangibilità degli affetti ed alla solidarietà familiare.
Dopo aver analizzato la fattispecie del “danno da perdita del rapporto parentale”, occorre soffermarsi sulla liquidazione del medesimo per poi comprendere la decisione a cui è pervenuta la Suprema Corte nella sentenza in esame.
Nella liquidazione del danno non patrimoniale, il problema principale postosi in dottrina e giurisprudenza attiene alla corretta quantificazione del medesimo, poiché l’inesatta determinazione o la non corrispondenza al danno effettivamente patito, si traduce in una rischiosa sovra compensazione del quantum oppure, addirittura, in una sotto compensazione, frustando la reale funzione della responsabilità civile.
La giurisprudenza maggioritaria riteneva che il giudice, nella liquidazione del danno, avrebbe dovuto seguire un criterio meramente equitativo, il cui referente normativo è da rinvenire nell’art. 1226 cod. civ., prefigurante l’equità giudiziale c.d. “correttiva”, la quale postula che la prova del danno nel suo preciso ammontare sia impossibile o particolarmente complessa.
Tale criterio, tuttavia, è obiettivamente incerto, poiché rischia di liquidare in maniera differente danni identici, a seconda dell’ufficio giudiziario procedente, in chiaro contrasto con l’art. 3 della Costituzione .
La giurisprudenza di legittimità, in un secondo momento, con la sentenza n. 12408 del 2011 aveva ritenuto che il criterio da seguire nella liquidazione del danno non patrimoniale fosse quello stabilito nelle Tabelle Milanesi, largamente diffuse sul territorio nazionale.
Le Tabelle in rassegna sono redatte dall’Osservatorio del Tribunale di Milano, che prevede una casella per le varie voci di danno; per il danno biologico prevede una tabella variabile, a seconda delle invalidità permanenti e delle invalidità temporanee.
Alle medesime viene riconosciuto, in applicazione dell’art. 3 della Costituzione, valore di parametro di valutazione equitativa del danno biologico, salvo che non sussistano in concreto ragioni che ne giustifichino l’abbandono.
Si è così consolidato l’orientamento secondo cui l’omessa o erronea applicazione delle tabelle del Tribunale di Milano possa essere fatta valere, in sede di legittimità, come violazione dell’art. 1226 c.c., costituendo le stesse parametro di conformità nella valutazione equitativa del danno.
In questa chiave di lettura, le tabelle milanesi hanno acquistato una sorta di efficacia para-normativa, in base alla quale, ai fini del rispetto del precetto dell’art. 1226 c.c., il giudice ha la possibilità di discostarsi dai valori tabellari a condizione che le specificità del caso concreto lo richiedano ed in sentenza sia fornita adeguata motivazione; ne discende che non è lo scostamento dalle tabelle milanesi a fondare la violazione della norma di diritto, ma la tabelle costituiscono il parametro per verificare se sia stato violato l’art. 1226 cod. civ.
Attraverso il sistema del punto variabile, adottato dalle Tabelle di Milano, per la misura del risarcimento si definisce un complesso di caselle entro le quali sussumere il caso, in funzione dell’uniforme risoluzione delle controversie, con la previsione di “finestre” per l’aumento del quantum risarcitorio, in ragione delle peculiarità del caso concreto.
Pertanto, al giudice è data la possibilità di liquidare il danno, oltre i valori massimi o minimi previsti dalla tabella, in relazione a casi la cui eccezionalità, specificatamente motivata, fuoriesca ictu oculi dallo schema standardizzato.
Tanto premesso, occorre dunque soffermarsi sul criterio da adottare nella liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale.
Nel caso in cui il parente – danneggiato chiedesse il risarcimento sia dei danni psico – fisici che di quelli dinamico – relazionali patiti, per la perdita del rapporto affettivo con il proprio congiunto, l’organo giudicante in subiecta materia è tenuto a confrontarsi con la difficoltà connessa alla monetizzazione del danno e, quindi, a stabilire in via equitativa la c.d. pecunia doloris.
Differentemente a quanto accade per il danno da lesioni permanenti ma non mortali subite dal proprio parente, in cui predomina lo stravolgimento delle abitudini di vita del danneggiato, nel danno da perdita del rapporto parentale si deve quantificare la sofferenza del danneggiato costretto a vivere una vita priva del proprio rapporto affettivo, che è stato reciso dal fatto illecito del danneggiante.
La determinazione della pecunia doloris non può fondarsi su astratte generalizzazioni, che rischiano di ristorare danni in re ipsa, ossia riconoscere danni in realtà non esistenti, sulla base del solo rapporto di parentela tra vittima e superstite.
Proprio questa necessità di personalizzazione del danno e di valorizzazione delle circostanze del caso concreto hanno spinto la giurisprudenza di legittimità ad abbandonare il criterio di liquidazione del danno previsto nelle tabelle milanesi, fondate sul sistema a punto variabile, cioè sulla previsione di un range minimo e massimo entro cui il giudice può discrezionalmente muoversi, senza che vengano indicati i parametri per esercitare una simile discrezionalità.
Garantisce, invece, uniformità e certezza di trattamento una tabella per la liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale basata sul sistema a punti, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della peculiarità della situazione concreta.
Invero, la Cassazione civile con la sentenza n.ro 33005 del 2021 sulla base del ragionamento logico – giuridico fin qui esposto, ha abbandonato il sistema delle Tabelle milanesi per la liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale, in virtù della singolarità che permea tale fattispecie, optando per un sistema differente di liquidazione del danno che tenga conto di una serie di circostanze variabili. In particolare, i requisiti che una tabella siffatta dovrebbe contenere sono i seguenti:
1) adozione del criterio “a punto variabile”;
2) estrazione del valore medio del punto dai precedenti;
3) modularità;
4) elencazione delle circostanze di fatto rilevanti (tra le quali, da indicare come indefettibili, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza) e dei relativi punteggi.
In conclusione, le uniche tabelle vigenti che, allo stato, soddisfano i criteri enunciati dal giudice di legittimità sono quelle romane. Il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato sulla base di tabelle che adottano un sistema a punti che prevede, oltre all’adozione di siffatto criterio del “punto variabile”, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità nonché l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti.
In particolare, in tale tipologia di danno non patrimoniale, è necessario che il giudice nella determinazione del quantum risarcitorio tenga debito conto dell’età della vittima e quella del superstite, il grado di parentela e l’eventuale convivenza, indicando i relativi punteggi nell’attribuzione dei quali è imprescindibile aver riguardo alle peculiarità ed all’eventuale eccezionalità del caso concreto.
Inoltre, il giudicante è tenuto ad una motivazione analitica, e non già apodittica, che sia logicamente congrua al caso concreto.