Avv. Valerio Bottiglieri

Sommario. 1. Introduzione: il principio di prevedibilità della risposta penale – 1.1. la rilevanza dei mutamenti giurisprudenziali – 2. Il caso – 3. La decisione – 4. Osservazioni conclusive.

 1. Introduzione: la rilevanza dei mutamenti giurisprudenziali

La tematica oggetto del presente contributo attiene alla rilevanza dei mutamenti giurisprudenziali (c.d. overruling esegetico) nei procedimenti penali in corso e in quelli già decisi con sentenza definitiva, con riferimento alle possibili implicazioni in punto di prevedibilità della risposta sanzionatoria.

Oggetto di un confronto serrato tra giurisprudenza interna e sovranazionale, è di grande interesse in quanto intercetta il complesso rapporto tra sopravvenienze e processo.
Orbene occorre premettere che quando il legislatore del 1930 ha coniato la disciplina della successione di leggi penali nel tempo – con l’art. 2 c.p. faceva esclusivo riferimento al mutamento delle leggi scritte, nel rispetto della prevalente concezione di legalità formale (“nullum crimen sine lege”) ex art. 25 Cost. .
L’art. 25 Cost. fa, infatti, riferimento alla legge e la riserva imposta da tale norma è di previa lex scripta per cui non riguarda gli orientamenti giurisprudenziali.
Da ciò consegue che – come rilevato dalla giurisprudenza costituzionale si veda Corte cost. n. 230/2012 sulla contravvenzione di omessa esibizione dei documenti di soggiorno e Corte cost. n. 115/2018 (sul caso Taricco-bis) – i mutamenti esegetici, anche se riconducibili a pronunce del massimo consesso di legittimità, non possono essere equiparati a una successione di leggi penali nel tempo.
L’unico vero “vincolo” è disposto dall’art. 618 co 1-bis c.p.p. secondo cui, laddove su una determinata questione interviene una pronuncia delle Sez. Unite, la Sezione semplice, che intende discostarsene, dovrà risollevare la questione dinanzi al massimo organo della giurisprudenza di legittimità, previo vaglio al Presidente.
In disparte ciò, in linea di massima, negli ordinamenti di civil law, un overruling esegetico, rispetto a una disposizione penale (anche sostanziale) applicabile al caso specifico – sia esso in bonam o malam partem potrà applicarsi nel procedimento in corso secondo il principio del tempus regit actum e non sarà idoneo a scalfire il giudicato.
Il rischio di questo eccessivo rigore, tuttavia, è di impattare con le garanzie fondamentali a tutela dell’imputato.
Di recente, pertanto, si è posto il problema del c.d. prospective overruling ovvero di individuare un meccanismo finalizzato a porre l’imputato al riparo dagli effetti nocivi di mutamenti giurisprudenziali imprevedibili delle “regole del gioco” attraverso la sterilizzazione di un nuovo indirizzo interpretativo.
In quest’ottica, dunque, la giurisprudenza di legittimità ha ipotizzato di equiparare i mutamenti esegetici a quelli normativi nei casi eccezionali in cui occorra salvaguardare le garanzie generali di prevedibilità e calcolabilità della risposta sanzionatoria.
Fermo quanto premesso, a tal fine, occorre, quindi – prima di affrontare l’argomento – fare una breve premessa sulla portata del principio di prevedibilità.

Come noto la risposta penalistica non può concretizzarsi in maniera casuale senza che il soggetto agente manifesti un atteggiamento di contrarietà rispetto ai valori protetti dall’ordinamento.
In tale prospettiva il principio di prevedibilità è, pertanto, considerato un corollario della legalità che, nonostante la valenza autonoma, è strettamente connesso con i canoni di riserva di legge, determinatezza, tassatività, irretroattività e colpevolezza in quanto immediatamente associato all’idea di certezza del diritto a garanzia dei diritti fondamentali enunciati dagli artt. 25 e 27 Cost. e 7 CEDU .
Come altrettanto noto, gli organi preposti a garantire la prevedibilità della condotta sono il legislatore – attraverso la redazione di norme chiare e precise – e il giudice che, salvo che un esito difforme dall’orientamento consolidato non appaia necessario per correggere un precedente errore interpretativo – pur nel rispetto del principio di libero convincimento – dovrebbe tendenzialmente evitare interpretazioni altalenanti.
Ciò posto, il diritto interno concepisce una prevedibilità “ristretta”, ovvero limitata esclusivamente alla costruzione del parametro normativo e alla previsione del complessivo trattamento sanzionatorio.
Secondo la prospettiva europea, invece, la prevedibilità deve essere garantita in una versione “allargata” ossia estesa anche alle modalità esecutive della pena (sul punto si veda Corte EDU Del Rio Prada c. Spagna del 2013 (Corte EDU Kafkaris c. Cipro del 2008).
La giurisprudenza tradizionale, invece, ritiene che le norme in tema di esecuzione penale, avendo carattere processuale, non rischiano di pregiudicare la garanzia di prevedibilità e, dunque, possono applicarsi retroattivamente secondo il principio del tempus regit actum.
Sul punto, tuttavia, occorre registrare il recente “cambio di rotta” della giurisprudenza costituzionale che, sulla scia di quella europea, con la pronuncia Corte cost. n. 32/2020 – rispetto alla scelta legislativa (L. n. 3/2019 Spazzacorrotti) di includere i reati contro la p.a. tra quelli soggetti ai regimi ostativi ex art. 4-bis L. 354/75 – ha condiviso una soluzione basata sulla differente consistenza della sopravvenienza normativa.
Su questa linea se, infatti, la nuova norma in tema di esecuzione pena, ancorché processuale, è idonea a modificare o ridefinire la sostanza della misura, incidendo sulla libertà personale del condannato, in tal caso, nel rispetto del principio di prevedibilità, potrà applicarsi solo per il futuro.
Peraltro sul punto si segnala che con la recente riforma L. 199/2022  il legislatore ha espunto i suddetti delitti dal regime ostativo ex art. 4-bis L. 354/75.
Quindi in punto di norme esecutive della pena la giurisprudenza costituzionale sembra avvicinarsi al concetto di “prevedibilità europea”.
Altro terreno di confronto tra il diritto interno ed europeo riguarda la prevedibilità degli esiti giudiziari.
Secondo l’approccio europeo non può essere comminata una sanzione penale nei confronti di chi – secondo criteri oggettivi e soggettivi – al momento di commissione del fatto, non avrebbe potuto prevedere l’esito di condanna a causa di un overruling esegetico (si veda Corte EDU del 2015 sul caso Contrada ).
L’ordinamento interno, invece, proprio alla luce di quanto già esposto, tradizionalmente, in presenza di un comparto normativo ben definito, non attribuiva alcuna rilevanza alla prevedibilità degli esiti giudiziari.
Anche sul punto, tuttavia, c’è stata una recente apertura della giurisprudenza di legittimità che, pur se con alcune sensibili differenze, si è avvicinata al modello europeo, attraverso il paradigma dell’ignoranza inevitabile della norma penale ex art. 5 c.p. (si veda Cass., Sez. Un. Genco, n. 8544/2019) .
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1.1. La rilevanza dei mutamenti giurisprudenziali
Ciò posto è opportuno valutare l’approccio della giurisprudenza sulla rilevanza del c.d. overruling esegetico operando una distinzione tra mutamenti più favorevoli (in bonam partem) e più sfavorevoli (in malam partem) per il colpevole.
L’analisi che si farà a breve, come anticipato in premessa, terrà conto anche dell’ulteriore differenza tra i procedimenti ancora in corso e quelli già definiti con sentenza passata in giudicato.

  1. a) Il caso di un orientamento inizialmente più rigido a cui segua un mutamento in bonam partem è senza dubbio quello che ha destato meno perplessità (quanto meno rispetto ai procedimenti ancora in corso).

Nell’impostazione della giurisprudenza interna, infatti, gli imputati sub iudice ben potranno beneficiare della nuova interpretazione più favorevole senza con ciò provocare il rischio di impattare con le garanzie fondamentali.
E, d’altronde, ciò avviene di frequente quando la nuova interpretazione determina una abolitio criminis parziale del reato contestato.
In verità è accaduto anche che l’overruling esegetico abbia addirittura determinato delle forme indirette di abolitio criminis della disposizione applicabile al caso di specie (si veda Cass. n. 31322/2018); Cass., a Sez. Un. Paternò n. 4007/2017  Sinigaglia n. 32923/2014 sulla violazioni delle prescrizioni eccessivamente generiche in tema di sorveglianza speciale).
I maggiori dubbi, tuttavia, si pongono rispetto ai soggetti condannati in via definitiva.
Sul punto ci si chiede se sia possibile superare l’originaria considerazione secondo cui il giudicato è intangibile di fronte a un mutamento giurisprudenziale più favorevole della norma applicata.
Il vero ostacolo in questo caso è l’art. 673 c.p.p. che ammette la revoca della sentenza di condanna solo in caso di norma dichiarata incostituzionale o abolitio criminis avvenuta per mutatio legis (e non per mutamento esegetico).
Se ne deduce, pertanto, che il condannato deve sopportare la condanna e non ha rimedio anche se, nel tempo, è mutato in bonam partem l’orientamento seguito dal Giudice.
D’altronde l’art. 673 c.p.p. è stata oggetto di sindacato di legittimità e la Corte cost. – con la precitata sent. n. 230/2012 – aveva respinto le censure di incostituzionalità.
E allo stato non ci sono stati segnali di un diverso approccio.
La soluzione sembra comunque coerente con l’approccio della giurisprudenza europea che, nel consentire l’applicazione retroattiva della disciplina più favorevole, ha sempre tenuto fermo il limite del giudicato (si veda Corte EDU Scoppola c. Italia del 2009 ).
Ammettere l’incidenza sul giudicato del mutamento giurisprudenziale (anche se più favorevole), infatti, creerebbe giudicati troppo cedevoli.

  1. b) La questione – esaminata dalla sentenza in commento – è tuttavia quella di un mutamento esegetico più sfavorevole/in malam partem.


L’ipotesi è, senza dubbio, più delicata per le ripercussioni che può provocare in punto di garanzie fondamentali.
Va, da subito, chiarito che nulla quaestio se il soggetto ha già ottenuto un giudicato assolutorio.
E’, infatti, evidente che quest’ultimo non potrà mai essere rimesso in discussione da un successivo mutamento giurisprudenziale addirittura più sfavorevole giacché, come noto, il rimedio della revisione ex art. 630 c.p.p.  opera solo pro reo.
Nel caso in cui, invece, durante lo svolgimento del processo l’orientamento giurisprudenziale applicabile dovesse mutare in senso peggiorativo per l’imputato, ci si chiede se quest’ultimo possa applicarsi retroattivamente (anche se il fatto è stato commesso quando l’orientamento era più favorevole).
Non potendo seguire i principi in tema di successione di leggi penali nel tempo, non c’è nessuna norma che impedisca in nuce al nuovo orientamento (ancorché sfavorevole) di applicarsi al caso di specie.
Questo principio si scontra però con l’orientamento della giurisprudenza europea che, a più riprese, ha valorizzato l’interpretazione dell’art. 7 CEDU secondo cui non è ammessa l’interpretazione giurisprudenziale più sfavorevole di una norma penale quando il risultato non poteva essere ragionevolmente prevedibile al momento di commissione del fatto.
Su queste basi l’approccio più recente della giurisprudenza interna tende a valorizzare proprio l’aspetto della prevedibilità investendo il giudice del compito di valorizzare la possibilità o meno di prevedere quel mutamento giurisprudenziale (il prospective overruling).
In più occasioni, infatti, la Corte di Cassazione (su tutte si veda Cass. n. 10659/2020) ha sancito che l’overruling esegetico in malam non è suscettibile di interpretazione retroattiva, laddove l’opzione ermeneutica che ne è alla base non sia ragionevolmente prevedibile al momento della commissione del fatto.
Tale interpretazione è stata convalidata dalle Sez. Un. Genco, n. 8544/2019 che hanno valorizzato la prevedibilità degli esiti giudiziari secondo il profilo della colpevolezza inerente all’errore di diritto ex art. 5 c.p.
Questo significa che è possibile contestare la mancata prevedibilità dell’esito giudiziario, ma solo se il soggetto dimostra l’ignoranza della legge penale, secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata della Corte Cost. n. 364/88 .
Secondo quest’impostazione, che sembra consolidarsi anche nella più recente giurisprudenza di legittimità, il mutamento giurisprudenziale in malam deve risultare assolutamente imprevedibile al punto da giustificare un’ignoranza inevitabile del soggetto agente.
Le Sez. Un., sul punto, specificano che, a tal fine, è necessario prendere in considerazione sia criteri soggettivi (il grado di consapevolezza e di conoscenza del soggetto) sia oggettivi che concernono il comportamento fuorviante dell’autorità procedente e, soprattutto, la portata del contrasto giurisprudenziale.

– Se, infatti, il contrasto è sincronico – per cui sulla qualificazione di un fatto ci sono orientamenti interpretativi coevi differenti tra loro – il soggetto agente avrebbe dovuto comunque astenersi dall’agire e se ha comunque commesso il fatto non può invocare alcun errore di diritto.

– Laddove, invece, il contrasto è diacronico – per cui c’è un orientamento monolitico che induce a prevedere certi esiti giudiziari e successivamente alla commissione del fatto lo stesso viene completamente ribaltatociò potrà essere valutato ai fini della possibile applicabilità della scusante dell’art 5 c.p.
Tale approccio conferma ulteriormente che non c’è alcuno spazio per valorizzare la prevedibilità degli esiti giudiziari dopo il passaggio in giudicato.
Se, infatti, il canale di ingresso del principio di prevedibilità degli esiti giudiziari, nell’ordinamento interno, è l’art 5 c.p., è evidente che ciò non può essere accertato dopo il passaggio in giudicato della sentenza perché valutare la scusabilità dell’errore di diritto richiede un giudizio complesso ricostruttivo dell’elemento psicologico del soggetto agente al momento del fatto, che, per ovvi motivi, non può essere svolto dal giudice dell’esecuzione.

 2. Il caso

Tutto quanto premesso la vicenda oggetto della sentenza in commento riguarda la condanna di Tizio, confermata in appello, per i reati di a) bancarotta fraudolenta distrattiva; b) bancarotta fraudolenta documentale; d) emissione di fatture per operazioni inesistenti; e) sottrazione di merci al pagamento dei diritti di confine; f) falso in atto pubblico per induzione, alla pena di anni tre e mesi quattro di reclusione, tenuto conto della recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale ex art. 99 c.p. .
Avverso la condanna Tizio proponeva ricorso per Cassazione lamentando, quanto ai reati di cui ai capi d), e) ed f), la violazione degli artt. 99, co. 6 , 157, co. 2  e 161, co. 2 c.p. , nonché dell’art. 129 co. 1 c.p.p. .
Secondo la tesi della difesa, la Corte d’appello avrebbe errato nel negare i suddetti reati erano caduti in prescrizione prima della pronunzia conclusiva del giudizio di appello.
Tale vizio, come chiarito dalle Sez. Un. Ricci (si veda Cass., a Sez. Un., n. 12602/2016), può essere denunciato in sede di legittimità integrando tale doglianza un motivo consentito ai sensi dell’art. 606, co. 1, l. b) c.p.p. .
In particolare, i Giudici di secondo grado non avrebbero tenuto conto del limite di cui all’art. 99, co. 6 c.p. secondo cui “in nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo”.
La succitata disposizione è stata oggetto di un aspro contrasto giurisprudenziale sull’incidenza della regola mitigatoria dell’art. 99, co. 6 c.p. sul calcolo prescrizionale.
Secondo un orientamento (cfr. Cass. Graniello, n. 44099/2019) per determinare la durata del termine di prescrizione, nel caso in cui sia stata contestata e ritenuta la recidiva qualificata, bisogna far riferimento all’aumento di pena previsto dai commi 2, 3 e 4 dell’art. 99 c.p., con il temperamento derivante dall’applicazione del limite fissato dal co. 6 dello stesso articolo.
Tale limite, secondo questa linea interpretativa, non muta la natura di circostanza a effetto speciale della recidiva qualificata ex art. 63, co. 3 c.p. e quindi è idoneo a influire non solo sulla quantificazione della sanzione, ma anche sul termine di prescrizione (in ossequio al generale principio del favor rei).
In senso contrario (cfr. Cass. n. 34949/2020), invece, si è deciso che la recidiva perde la qualifica di circostanza a effetto speciale quando l’aumento di pena generato, per effetto del limite previsto dall’art. 99, co. 6 c.p. sia “in concreto” inferiore ad un terzo perché sono circostanze effetto speciale solo quelle che determinano un ampliamento/riduzione “effettivo” di un terzo.
In modo più radicale pertanto questa tesi elimina in radice la rilevanza della suddetta disposizione al fine del calcolo del termine di prescrizione.
Aderendo al primo orientamento, la Corte di Cassazione – Cirelli, a Sez. Un. n. 30046/2022 ha sancito che il limite all’aumento di cui all’art. 99, co. 6 c.p. non rileva in ordine alla qualificazione della recidiva, come prevista dal co. 2 e co. 4 del predetto articolo, quale circostanza ad effetto speciale; non influisce sui termini di prescrizione determinati ai sensi degli artt. 157 e 161 c.p.p., come modificati dalla L. n. 251/2005.
Secondo la prospettazione difensiva, tuttavia, la richiamata sentenza – in quanto deliberata nelle more della celebrazione dell’udienza a carico di Tizio – non potrebbe applicarsi al processo in corso perché costituirebbe un’esegesi in malam partem che pregiudicherebbe l’esigenza di prevedibilità e calcolabilità della risposta penale.
Non bisogna, peraltro, dimenticare che la prescrizione – secondo la giurisprudenza costituzionale – è istituto di diritto sostanziale (Corte cost. n. 393/2006 e n. 324/2008 e n. 115/2018 sul caso Taricco) perché disciplinata da norme contenute nel codice penale e perché attiene alla punibilità del soggetto.
Sempre nell’ottica della difesa, pertanto, la sentenza Cirelli rientrerebbe in quelle ipotesi di contrasto diacronico in cui, come anticipato, un orientamento ormai radicato cambia repentinamente a favore di una tesi innovativa.
Su queste basi il ricorrente ha agitato il tema del prospective overruling e della violazione dell’art. 7 CEDU quanto alla prevedibilità – al tempo della commissione dei reati – dell’esegesi circa l’irrilevanza dell’art. 99 c.p., in ordine alla determinazione del massimo edittale rilevante ai fini del calcolo del termine prescrizionale.

3. La decisione

  1. La Cassazione, Sez. V penale, con sent. n. 49436 del 03.11.2022 ha seguito l’orientamento più recente e ha dichiarato il ricorso inammissibile.

Secondo la Suprema Corte gli argomenti posti dalla difesa non colgono nel segno perché alla data di commissione dei reati per cui si procedeva non si registrava un indirizzo consolidato sull’incidenza dell’art. 99 co. 6 c.p. sulla prescrizione tale per cui l’imputato potesse contare nel prefigurarsi un termine di prescrizione più breve per i reati commessi.
Va rilevato, inoltre, che gli unici orientamenti nella direzione invocata dalla difesa sono comunque risalenti e addirittura antecedenti alla L. 251/2005 che ha modificato il regime della prescrizione.
Se ne ricava, dunque, che non vi era all’epoca dei fatti una sedimentazione giurisprudenziale tale da costituire diritto vivente, che facesse ritenere ragionevolmente prevedibile che la regola mitigatoria di cui all’art. 99 c.p., potesse incidesse anche sulla prescrizione.
Secondo la prospettazione della Corte, in definitiva, non era ragionevolmente imprevedibile, alla data del commesso reato, che il termine prescrizionale fosse insensibile all’applicazione della regola contenitiva di cui all’art. 99 c.p. e, quindi, il principio sancito dalle Sez. Unite Cirelli non costituisce un novum imprevedibile idoneo ad incidere sul piano dell’errore inevitabile di diritto.
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4. Osservazioni conclusive

Indubbiamente un approccio restrittivo ben lontano da quanto auspicato dalla parte più europeista degli autori.
A parere dello scrivente, tuttavia, la soluzione della giurisprudenza più recente, per quanto passi attraverso il prisma della colpevolezza e presupponga, pertanto, un’indagine (come noto) piuttosto complessa e, per certi versi, oscura, è pienamente condivisibile.
D’altronde un’apertura troppo ampia e (forse) altrettanto troppo “fiduciosa” a favore del cittadino rischierebbe di favorire indebite strumentalizzazioni dei mutamenti esegetici.
Con ciò non si vuole di certo sminuire l’importanza della garanzia di prevedibilità che, tuttavia, andrebbe preservata – prima di tutto – attraverso previsioni legislative intellegibili e coerenti con l’ispirazione della c.d. “riserva di codice” ex art. 3-bis c.p. che, allo stato attuale, sembra ancora un miraggio.
È forse questo il passo (primario) che potrebbe ridimensionare l’utilità del prospective overruling e le conseguenti difficoltà applicative che ha generato e continua a generare tra gli interpreti.

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