Il D.L. 76/2020 noto come Decreto Semplificazioni ha tra le altre modifiche novellato l’ art. 323 c.p. così recita la norma, nella parte oggetto di modifica: “[…] che nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino ulteriori margini di discrezionalità …”.
L’abuso d’ufficio ha da sempre rappresentato una norma di chiusura nel sistema dei delitti contro la P.A., così come suggerito dalla clausola di riserva relativamente indeterminata “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato …”, ed è sempre stato oggetto di riforme da parte del legislatore nel continuo tentativo di renderlo il più possibile rispondente ai principi di tassatività e determinatezza.
La scarsa precisione della condotta incriminata ha consentito alla giurisprudenza di merito e di legittimità agili interpretazioni, che hanno inevitabilmente condotto ad una estensione dell’area del penalmente rilevante.
Ed invero, nella precedente formulazione della norma, l’elemento della “violazione di legge o di regolamento” era interpretato estensivamente facendovi rientrare nel concetto di “legge” anche la Costituzione e i suoi principi, come ad es. l’ art. 97 con i suoi canoni di buon andamento ed efficienza.
Si riteneva potesse integrare abuso d’ufficio anche quella condotta posta in essere in violazione dei principi citati, così come in spregio alla L. n. 241/1990 e così via. Inoltre, il giudice penale era libero di sindacare anche sulla scelta “discrezionale” della P.A. tutte le volte in cui risultasse contraria alla legge ed ai suoi principi, specie quando il provvedimento risultasse viziato da eccesso o sviamento di potere.
Un simile contesto ha comportato l’insorgere di timori tra i pubblici funzionari, tra i quali la c.d. “paura della firma”, preoccupati di poter incorrere facilmente in responsabilità penale e determinandosi una sorta di paralisi dell’attività amministrativa.
L’intento del legislatore del 2020 è stato proprio quello di ridefinire, restringendoli, i confini dell’abuso d’ufficio, al fine di eliminare ogni sorta di paura e di ingerenza da parte della magistratura sull’operato dei pubblici uffici. La semplificazione dell’attività amministrativa può avvenire solo se i funzionari sono in grado di svolgere le proprie funzioni con “serenità”.
Ciò spiega perché nella nuova formulazione sia scomparso il riferimento ai “regolamenti” e soprattutto si sia indicato l’oggetto della legge violata, ossia le “specifiche regole di condotta” nonché la puntualizzazione sull’assenza di ulteriori “margini di discrezionalità”.
In altri termini, integra abuso d’ufficio la condotta che sia consistita nella violazione di una regola di comportamento prevista dalla legge o da atti aventi forza di legge, e nell’ambito dell’attività vincolata della P.A., venendo meno la rilevanza penale della violazione dei regolamenti e di quelle leggi che prevedono altri tipi di regole nell’esercizio di attività discrezionale.
La riforma del 2020 ha comportato, come affermato dalla Corte di Cassazione, una “abolitio criminis” parziale poiché permane, sebbene per una minima parte, la rilevanza penale di quelle condotte rispondenti agli elementi richiesti dalla norma. Di conseguenza, per le condotte antecedenti ed ormai prive di rilevanza penale si applicherà il disposto di cui all’art. 2 co. 2 c.p..
Se da un lato è pacifico che la norma sia stata in parte abrogata, dall’altro permangono dubbi in ordine all’ingerenza del giudice penale sull’attività oggetto della condotta, in particolare fin dove possa intendersi superata la possibilità di sindacare il merito delle scelte discrezionali della P.A. nonché se la norma escluda il c.d. auto vincolo.
Con riferimento alla prima questione, la Corte di Cassazione con sentenza n. 442/2021 ha ritenuto configurabile l’abuso quando l’esercizio del potere trasmoda in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici (c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità). Quindi, se è vero che il giudice penale non può più sindacare in merito ai cosiddetti limiti interni della discrezionalità amministrativa, è anche vero come un’azione apertamente in contrasto con le finalità imposte dalla legge e che legittimano l’esercizio del potere, integra una violazione di legge rilevante ex art. 323.
Quanto all’ipotesi dell’auto vincolo, e cioè allorquando un’attività concepita come discrezionale diviene vincolata per volere della stessa P.A. che definisce “an” e “quomodo”, si discute se possa rientrare o meno nell’ambito di quelle attività in cui non residuino margini di discrezionalità. Sul punto, si segnala Cass. n. 8057/2021 che ha affermato la configurabilità del delitto de quo anche in questo caso.
Alla luce delle suesposte considerazioni, si dubita fortemente dell’utilità del “nuovo” abuso d’ufficio, posto che le condotte penalmente rilevanti sono ridotte all’osso: sia perché l’attività amministrativa è disciplinata per lo più da regolamenti e sia perché è connotata da discrezionalità, essendo di gran lunga inferiori i casi di attività vincolata. Ciò spiega il motivo per cui questa parte della giurisprudenza tiene a precisare come la rilevanza penale sussista in caso di sviamento di potere.