Sintesi
Il diritto reale di abitazione, riservato al coniuge superstite dall’art. 540, comma II, c.c., ha ad oggetto la sola “casa adibita a residenza familiare” ovvero l’immobile in cui i coniugi abitavano stabilmente prima della morte del de cuius, quale luogo principale di aggregazione degli affetti, interessi e consuetudini della vita familiare.
Ne consegue, pertanto, che tale diritto non può riguardare due (o più) residenze alternative, ovvero due (o più) immobili di cui i coniugi abbiano la disponibilità o che utilizzino in via temporanea.
Con la sentenza in commento n. 7128/2023 la Corte di Cassazione definisce i confini del diritto reale di abitazione riconosciuto, ai sensi dell’art. 540, comma II c.c. , in capo al coniuge per successione mortis causa.
Come noto l’art. 540 comma II c.c., “anche quando concorra con altri chiamati”, riserva al coniuge il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano.
Precisa inoltre che “tali diritti gravano sulla porzione disponibile e, qualora questa non sia sufficiente, per il rimanente sulla quota di riserva del coniuge ed eventualmente sulla quota riservata ai figli”.
Tale norma attribuisce al c.d. “successore egemone” una tutela piena ed effettiva (secondo alcuni autori eccessiva) attraverso il riconoscimento di un diritto, temporalmente indeterminato e sottratto dallo scomputo dell’asse ereditario evitando così, a tutti gli effetti, la partecipazione al meccanismo di divisione previsto dall’art. 713 c.c. .
Sul punto la giurisprudenza di legittimità, dapprima nel 2016, e successivamente nel 2018, ha avuto il merito di evidenziarne gli aspetti peculiari nonché la ratio, specificando, sul punto, che i diritti di abitazione e di uso dei mobili che la corredano risultano astrattamente “finalizzati a dare tutela, sul piano patrimoniale e su quello etico-sentimentale, al coniuge, evitandogli i danni che la ricerca di un nuovo alloggio cagionerebbe alla stabilità delle abitudini di vita della persona’’ (Cass. civ., Sez. II, sent. n. 2754 del 5 febbraio 2018).
Da tale connotazione, a parere della scrivente, non può che dedursi un netto effetto discriminatorio rispetto a quanto attribuito, invece, al convivente more uxorio.
Non va dimenticato, infatti, che, con la recente riforma L. Cirinnà n. 76/2016 , il legislatore pur disciplinando alcuni aspetti della c.d. famiglia “di fatto”, non ha replicato per il convivente “superstite” la consistenza del diritto di abitazione previsto per il coniuge.
Seppur la normativa introdotta nel 2016 sia stata accolta, quindi, come una “vittoria” dopo anni di dure battaglie, essa presenta non poche discrepanze laddove all’art. 1, comma 42 L. n. 76/2016 , precisa che “in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni”.
Il convivente di fatto superstite ha, quindi, il diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza, anche se di proprietà del defunto, per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni.
Se nella stessa casa coabitano figli minori o figli disabili del convivente superstite, lo stesso avrà diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni.
Orbene nella volontà di non cadere in aspri dibattiti, del tutto irrilevanti rispetto alla disamina di cui oggetto, occorre soffermarsi sulla portata del diritto riconosciuto in favore del coniuge superstite ai sensi dell’art. 540, comma II c.c.
La nozione di casa coniugale, come si evince dall’art. 144 c.c. rubricato, tra l’altro, “Indirizzo della casa familiare e residenza della famiglia’’, specifica che i coniugi fissano la residenza della famiglia “secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa’’.
Da ciò si ricava che, secondo il codice civile, per residenza familiare si intende il luogo in cui i coniugi abbiano trascorso gran parte del loro rapporto di affetto e reciproca comunione spirituale.
Le maggiori problematiche possono tuttavia riscontrarsi lì ove i coniugi abbiano scelto quale luogo di sentimento e di trascorso, altresì, ulteriori luoghi, in un tempo che seppur minore rispetto a quello vissuto nella casa coniugale, risulti essere comunque considerevole.
Ci si chiede, infatti, se il coniuge superstite possa vantare il diritto di abitazione anche in relazione a tali ulteriori beni ai sensi dell’art. 540, comma II c.c.
La questione trova, così soluzione, nella sentenza in commento che non ammette alcuna cumulatività nella nozione di residenza coniugale, dovendo necessariamente la stessa trovare quale miraggio in una sola abitazione, ai fini del godimento del diritto di cui all’art. 540, comma II c.c.
Se ne ricava, pertanto, il seguente indirizzo ermeneutico, secondo il quale, in linea con precedenti orientamenti: “è da escludere che l’ambito del diritto di abitazione che spetta al coniuge superstite si estenda fino a comprendere due (o più) residenze alternative postulando la nozione di casa adibita a residenza familiare comunque l’individuazione di un solo alloggio costituente, se non l’unico, quanto meno il prevalente centro di aggregazione degli affetti, degli interessi e delle consuetudini della famiglia durante la convivenza’’.
Si delinea dunque un preciso assetto da parte della Suprema Corte volto a ridimensionare la portata del diritto reale destinato al coniuge superstite riequilibrando, così, le posizioni degli eredi legittimari ex art. 536, co. 1 c.c. .