L’assetto ordinamentale europeo si caratterizza per la sua conformazione pluridimensionale o, se si vuole, multilivello.
Le decisioni assunte sul piano comunitario sono destinate – per il tramite di una sintesi dapprima politica e poi giuridica – a spiegare i propri effetti sugli ordinamenti degli Stati membri, configurando una ripartizione stratificata di ruoli e competenze istituzionali.
In quest’ottica si ritiene di poter inquadrare la disciplina normativa contenuta nella Carta etica europea sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e negli ambiti connessi ossia come una formale richiesta di allineamento tra i dettami europei e le tradizioni giuridiche dei singoli Stati destinatari della proposta legis.
Già nel 2018, infatti, la Commissione europea per l’efficienza della giustizia – CEPEJ attraverso tale fonte – c.d. di soft law –, introduceva un nuovo metodo condiviso per il trattamento automatizzato delle decisioni e dei dati giudiziari.
Il metodo consiste nella gestione di taluni profili, spiccatamente sensibili sul piano giuridico, mediante l’impiego di moderni software e sistemi meccanici, attraverso cui supportare (per poi addirittura sostituire) le attività decisionali dell’uomo.
L’applicazione di formule algoritmiche, utilizzate in luogo delle tradizionali argomentazioni logiche fornite dal giudice sia in fase procedimentale che decisoria, genera una serie di perplessità precipuamente con riguardo al processo penale, qui inteso come sede elettiva dei diritti fondamentali dell’individuo, presidiato altresì dal principio di legalità processuale.
L’efficienza della tutela giurisdizionale, raggiunta attraverso il contingentamento delle risorse processuali, talvolta si colloca in posizione antitetica rispetto all’effettività della risposta di giurisdizione, per la quale, invece, è necessaria una deminutio delle medesime risorse.
Proprio intorno al binomio (apparentemente) inscindibile «efficienza-effettività» del rito penale sembra ruotare il concetto di prova digitale, qualificata come mezzo attraverso cui assicurare, nel solco della legislazione sovranazionale, la ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., a sua volta principio riconosciuto ma ancora scarsamente garantito, sia sul piano procedimentale che sul versante – stricto sensu – processuale.
Il processo, ossia quell’itinerario cognitivo teso all’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, storicamente attribuisce al giudice un ruolo di dominus nella definizione delle dinamiche procedurali.
Tale posizione privilegiata è da intendersi come concetto di scopo, ossia come funzione dalla doppia strumentalità: il controllo autorevole del giudice assicura il buon andamento del processo, quindi riconosce – effettivamente – i diritti soggettivi.
In questo senso diviene più semplice giustificare – in un modello processuale tendenzialmente accusatorio, come quello italiano – non soltanto l’inserimento nella trama codicistica di stringenti poteri d’ufficio in materia di istruzione probatoria (artt. 422 e 507 c.p.p.), ma anche la collocazione (strategica) del principio del contraddittorio all’interno di quel complesso di norme costituzionali – espressamente – poste a tutela della giurisdizione (art. 111 Cost., Sezione II, Titolo IV).
Ci si chiede, dunque, in quali termini il dominium del giudice penale possa foraggiare l’intento, quasi illusorio oggigiorno, di assicurare che il giusto processo abbia durata ragionevole, anche a fronte dell’influenza – sempre più pervicace – delle moderne istanze in tema di digital evidence.
Queste, invero, sembrano voler trasformare la natura tradizionalmente umanista della decisione giudiziale in mero rigore tecnico-scientifico.
L’intelligenza artificiale come evidenza probatoria: una sfida senza dubbio affascinante, che tuttavia richiede un’attenta riflessione tesa a coniugare – in nome dell’efficienza-effettività del sindacato giurisdizionale – le garanzie sistemiche e i diritti fondamentali dei soggetti sottoposti a processo.