Mariarosaria Ruotolo Associazione Comunicare Liberi
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Il processo di criminalizzazione dello straniero affonda le sue radici in una realtà lontana nel tempo e, occorre subito chiarirlo, anche nello spazio, in quanto solo in un secondo momento viene inglobato anche nella dottrina italiana.

Il fenomeno nasce e si sviluppa come una sorta di sovrapposizione tra diritto penale e diritto dell’immigrazione con il sostegno del diritto amministrativo e del diritto internazionale. La disciplina della “crimmigration” diventa quindi il mezzo pratico che ha permesso la fusione di materie che, prima d’allora, erano completamente slegate.

La necessaria evoluzione di tale processo è stato l’inasprimento degli strumenti a disposizione degli Stati nella gestione dei flussi migratori irregolari cui fa seguito un contestuale e drastico indebolimento delle garanzie dei diritti fondamentali dello straniero. Come anticipato il fenomeno non nasce nel vecchio continente, ma è stato originariamente osservato e studiato negli Stati Uniti dove Juliet Stumpf ne ha coniato il termine.

Il fenomeno si è poi esteso alle nostre latitudini e nelle politiche migratorie che, quantomeno negli ultimi decenni, regolano il flusso ingente di migranti dovuto, innanzitutto, alla instabilità politica e sociale di molti Paesi bagnati dal Mediterraneo. Lo studio di prassi e interventi legislativi ha indotto quasi fin da subito la dottrina statunitense a contemplare, in via astratta, tre direttrici lungo le quali si diramerebbe la crimmigration.

La prima direttrice riguarda la previsione di conseguenze penalistiche a violazioni di diritto dell’immigrazione e in particolar modo riguarda: reati di ingresso o soggiorno illegale, violazione di un ordine di allontanamento o favoreggiamento dell’immigrazione; la seconda, invece, si occupa di conseguenze di tipo amministrativo sullo status di migrante quando questi compie un comune reato; la terza, infine, attiene all’utilizzo di strumenti tipicamente penalistici – in primis, la privazione della libertà –nella gestione del fenomeno migratorio.

Guardando alle analisi maturate negli Stati Uniti si è ormai diffuso anche nella dottrina italiana il neologismo “crimmigration” con il quale si definisce l’intreccio “fra logica criminalizzante ed efficientismo amministrativo nel perseguimento di quello che sembra essere ormai diventato l’obiettivo cruciale delle politiche migratorie di molti paesi occidentali, ossia l’esclusione dello straniero qualificato come indesiderabile”: un intreccio che segna un vero e proprio mutamento di paradigma rispetto ai tradizionali approcci statali in tema di immigrazione, rappresentato dall’assurgere dell’espulsione dello straniero indesiderabile a “obiettivo sistemico dichiarato, a scopo verso il quale tutto il sistema delle norme rilevanti è, almeno ufficialmente, orientato”.

Attraverso l’assegnazione dell’etichetta di “criminale” all’ autore di un reato, secondo la cosiddetta labelling theory si innesca un processo in grado di trasformare il reo (vero o presunto) di un singolo reato in un delinquente cronico.

Il labelling approach è divenuto, quindi, il tratto distintivo della nascente politica criminale tesa verso l’affermazione di un “nuovo” diritto penale della sicurezza che, ovviamente deviato da una connotazione di stampo proibizionistico e preventivo, “divora tutti i principi dello Stato di diritto”.

L’inaccettabilità di un simile epilogo impone evidentemente la necessità di individuare un “freno d’emergenza” che limiti l’(in)voluzione del volto tradizionale del diritto penale. L’obiettivo si rende infatti possibile solo attraverso una maggiore esaltazione dei principi classici che riescano ad operare un bilanciamento tra libertà e sicurezza a discapito di istanze penalpopuliste.

I migranti, con il passare del tempo, sono diventati il “nemico pubblico” per eccellenza, una citazione ottimale condita di stereotipi per riportare in auge i concetti di “identità nazionale”, “patriottismo”, “difesa della cultura e delle proprie radici” ignorando completamente gli insegnamenti storici sull’importanza della mescolanza culturale come fonte assoluta di ricchezza.

Per ricostruire al meglio l’inglobazione del concetto di “crimmigration” nella letteratura giuridica italiana risulta necessario fare un passo indietro e ricordare i valori della nostra Costituzione repubblicana che all’articolo 3 recita:

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”

Un inno all’uguaglianza che incarna perfettamente i valori repubblicani di un’Italia scottata dal ventennio fascista, presentandosi come il baluardo dei valori e principi fondamentali della nostra carta costituzionale. L’articolo di riferimento sancisce che la legge non può fare discriminazioni in base al sesso dei cittadini, la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche, le condizioni personali e sociali. L’elenco è così ampio da ricomprendere qualsiasi forma di diversità, anche quelle non espressamente indicate. Dal punto di vista legislativo molto è stato scritto negli ultimi anni:

Il 30 luglio 2002 entrava in vigore la legge numero 189, c.d. legge Bossi – Fini .

Nello specifico la Bossi – Fini toglie la possibilità concreta di entrare nel territorio italiano in maniera regolare per motivi lavorativi. Ergo lo Stato italiano afferma che, in qualche modo, una persona che non è mai stata in Italia per avere il diritto di entrare deve obbligatoriamente essere in possesso di un contratto di lavoro (della durata massima di 2 anni) stipulato da un datore di lavoro che, però, non ha mai incontrato personalmente, e oltretutto il contratto è scritto in una lingua che non capisce.

Scaduto il termine, ex abrupto, il lavoratore dovrà ritornare nel proprio paese di origine a spese del datore di lavoro .In questo modo l’unica alternativa percorribile rimane, a loro avviso, quella della pericolosa e mortale traversata nel mediterraneo con i barconi, entrando direttamente come clandestini.

Alla domanda posta agli italiani se secondo loro gli immigrati rendono il paese un posto migliore o peggiore dove vivere, le risposte sono state le più negative di tutta l’Europa, fatta eccezione per Ungheria e Russia. L’aumento dei flussi migratori nel mediterraneo, dovuto innanzi tutto alla mancanza di vie legali per entrare nel paese per colpa della Bossi-Fini, è stato colto come occasione per fare propaganda, arrivando, appunto, ad ottenere il risultato che per una parte consistente degli italiani l’immigrazione e l’immigrato (soprattutto africano e nero) è di fatto un problema legato alla sicurezza.

Secondo i dati Istat del 2018 in Italia ci sono circa 5,25 milioni di stranieri regolari, di cui solo 3,6 proveniente da paesi extra UE; eppure ormai si sente parlare di richiedenti asilo, rifugiati, clandestini ed immigrati come se non ci fosse alcuna distinzione tra queste categorie di persone, finendo per mettere nello stesso calderone chiunque abbia la pelle scura.”

Un decreto importante in materia è anche il c.d. decreto Salvini che rappresenta un ottimo esempio italiano della tendenza legislativa ad approcciare in chiave securitaria la materia dell’immigrazione: le novità in tale disciplina vengono collocate in un provvedimento che già dal titolo dimostra di considerare il tema dell’immigrazione inscindibilmente connesso alle problematiche della sicurezza e dell’ordine pubblico.

Un primo dato che dovrebbe colpire l’attenzione è che, con l’unica eccezione dell’intervento del 2009, tutti i pacchetti sicurezza dell’ultimo decennio (compreso il decreto Salvini) sono stati varati mediante lo strumento del decreto-legge, sul presupposto che gli interventi a tutela della sicurezza configurassero quei “casi straordinari di necessità ed urgenza”, che ai sensi dell’art. 77 Cost. consentono il ricorso del Governo a tale forma di legiferazione, con conseguente spostamento del potere legislativo dalle mani del Parlamento a quelle del Governo, per definizione titolare del potere esecutivo.

Le cause, come afferma il prof. Luca Masera sono, ancora una volta, politiche e dunque mediatiche, anche perché come bene evidenziato da diversi commentatori, non mancano le ragioni per mettere in discussione la reale sussistenza dei requisiti di necessità ed urgenza (almeno, lo ripetiamo, rispetto ad alcune delle disposizioni del decreto), e dunque per dubitare della legittimità di un testo normativo approvato in modo non conforme alle regole indicate dalla Costituzione in materia di formazione delle leggi.

Mai come adesso pertanto, appare necessaria la necessità di un cambio di rotta, e la trasposizione del dibattito in tema di immigrazione dalla sfera popolare-populista a quella strettamente organizzativo -pratica onde evitare che si continui a far propaganda politica sulle vite di milioni di persone.

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