Sintesi
Prospettare la pubblicazione su Internet di materiale che ritrae una donna in atteggiamenti intimi laddove la stessa non avesse esaudito la richiesta di partecipare ad ulteriori videochiamate a sfondo sessuale può integrare gli estremi del delitto di violenza privata p. e p. dall’art. 610 c.p.
Fatto
Un uomo intraprendeva una relazione sentimentale virtuale su Facebook con una donna durante la quale la stessa, volontariamente, si era più volte mostrata a seno nudo.
Dopo un certo lasso di tempo la donna manifestava il suo dissenso ad assecondare le velleità dell’uomo.
Di talché quest’ultimo la minacciava di pubblicare su Internet materiale che la ritraeva in atteggiamenti intimi se la stessa non avesse acconsentito a denudarsi nuovamente in chat.
La donna, in principio cedevole al ricatto, successivamente sporgeva quindi querela contro di lui.
Rinviato a giudizio, l’uomo veniva condannato dal Tribunale di Foggia alla pena di giustizia, oltre risarcimento del danno, da liquidarsi separatamente, in favore della persona offesa, costituitasi parte civile, per il reato di violenza privata p. e p. dall’art. 610 c.p. .
Sul punto va innanzitutto chiarito che la condotta incriminata non poteva rientrare nell’alveo dell’art. 612-ter c.p. , pur integrandone gli estremi, in quanto lo stesso – essendo stato introdotto con L. 69/2019, successivamente alla data di commissione del fatto – non si applica retroattivamente in forza dell’art. 2, co. 1 c.p. .
Ciò posto la sentenza veniva parzialmente riformata dalla Corte di appello di Bari applicando il beneficio della sospensione condizionale della pena ex art. 163 c.p. .
Pur avendo beneficiato della sospensione condizionale, avendo comunque la Corte d’appello confermato la condanna nonché il risarcimento del danno, avverso la suddetta pronuncia insorgeva l’imputato con ricorso per Cassazione.
Secondo la prospettazione difensiva la relazione sentimentale tra i due, pur essendo solo virtuale, era proseguita anche nel periodo successivo alla querela durante il quale la donna aveva cercato di contattare l’imputato manifestando interesse e gelosia giacché quest’ultimo aveva iniziato a frequentare un’altra donna.
Orbene la difesa del ricorrente rivendicava l’inattendibilità e la strumentalità della querela di parte offesa volta, a suo dire, al solo scopo di accusarlo ingiustamente per aver mostrato indifferenza nei suoi confronti.
I Giudici di appello pertanto non avrebbero motivato adeguatamente la scelta di non aderire a tale ipotesi alternativa sulla ricostruzione dei fatti.
Secondo la difesa, inoltre, le dichiarazioni accusatorie della persona offesa erano prive di riscontro anche perché non vi era stata prova dell’avvenuta pubblicazione online delle foto.
Ulteriore censura oggetto di ricorso riguardava l’attendibilità della persona offesa, unico soggetto in grado di poter ricostruire i fatti.
Il ricorrente ricordava che qualora la persona offesa si costituisca parte civile, l’attendibilità delle dichiarazioni della vittima avrebbero dovuto essere valutate con maggior rigore.
Di ciò non si era però avveduta la Corte d’appello che aveva creduto alle accuse della donna solo perché la stessa non si era vergognata dell’accaduto e non aveva taciuto circostanze intime sull’accaduto.
Ciò, tuttavia, non poteva risultare dirimente giacché la persona offesa, come noto, viene sentita in giudizio nella qualità di teste e, pertanto, è sempre tenuta a dire il vero.
In ogni caso il comportamento della persona offesa, che aveva mantenuto “l’amicizia su Facebook” e aveva cercato di ricontattare l’imputato anche dopo la querela, deponeva per la non gravità della minaccia addebitata all’imputato.
Di talché la Corte d’appello avrebbe quantomeno dovuto applicare l’istituto della particolare tenuità del fatto previsto dall’art. 131-bis c.p. .
Inoltre la difesa rileva che alla minaccia dell’imputato era seguita la pubblicazione delle foto, ma in modo tale che fossero state visibili solo alla persona offesa per cui la fattispecie sarebbe dovuta essere contestata tuttalpiù nella forma tentata ex art. 56 c.p. .
Infine, sempre secondo la prospettazione difensiva, non era stato integrato il dolo in quanto l’imputato aveva rassicurato la vittima che le foto erano state cancellate.
Da ciò non emergeva, quindi, la rappresentazione e volontà di realizzare il fatto di reato.
La decisione
La Corte di Cassazione, Sez. V, n. 1358/2022 respinge il ricorso legittimando la logicità delle motivazioni con le quali la sentenza di appello aveva ritenuto penalmente rilevante la condotta dell’uomo.
Correttamente la Corte d’appello aveva ritenuto attendibile la vittima in quanto le sue dichiarazioni avevano trovato riscontro anche dalle stampe degli screenshot allegate alla querela che escludono la falsità delle accuse e la presunta finalità ritorsiva della vittima.
Occorre sul punto ricordare che gli screenshot rientrano nel novero delle prove ai sensi dell’art. 2712 c.c. e un eventuale disconoscimento – non potendo consistere in una mera opposizione – deve fondarsi su attestazioni valide che dimostrino la discrepanza tra quanto emerge dagli stessi e la verità dei fatti.
Nel processo penale, in particolare, ai sensi dell’art. 234 c.p.p. il valore probatorio (documentale) dello screenshot è ancora più libero, atteso che vale come prova, a prescindere dall’autenticazione e dalla certificazione.
Spetta, quindi, al giudice procedente a valutarne la veridicità.
Orbene sulla base dell’impianto probatorio emerso in giudizio, secondo i Giudici di legittimità, sono corrette le deduzioni della Corte d’appello con cui ha riconosciuto la consumazione del delitto di violenza privata.
Il reato di violenza privata si consuma infatti quando la vittima tiene la condotta alla quale è costretta dall’altrui minaccia e violenza per cui non può dirsi integrata la fattispecie tentata.
Sussistono infine tutti i presupposti del fatto tipico di reato.
La violenza privata infatti presuppone una condotta intimidatoria (la minaccia) volta a costringere taluno a compiere od omettere qualcosa.
Nel caso di specie la condotta dell’imputato era stata palesemente intimidatoria prospettando alla vittima la pubblicazione su Internet di materiale che la ritraeva a seno nudo.
In questo modo l’uomo aveva minacciato la donna di offendere il suo pudore e la sua riservatezza portando a conoscenza del pubblico senza il suo consenso immagini che la ritraevano nuda.
Di talché sono integrati perfettamente gli estremi della minaccia “di un male ingiusto” idonea a costringere la vittima a compiere quanto le veniva richiesto.
La condotta della persona offesa – che aveva cercato di ricontattare l’imputato mostrando interesse e gelosia nei suoi confronti – secondo la Corte, non può avere alcun peso nella valutazione della penale responsabilità dell’imputato in quanto giustificate dall’attrazione che la donna provava per l’imputato inducendola a conservarne il rapporto sentimentale.
Non assume rilievo altresì la circostanza che l’imputato non abbia attuato la minaccia in quanto come noto, nel delitto di violenza privata “l’attuazione del male minacciato non è un elemento costitutivo del reato”.
Quanto alla sussistenza del dolo, lo stesso è stato ritenuto, del tutto logicamente, integrato dai Giudici di appello in quanto l’imputato aveva prospettato chiaramente alla vittima che, in caso di eventuale rifiuto, avrebbe pubblicato il materiale su Internet.
Di talché lo stesso aveva chiaramente maturato la coscienza e volontà di coartare la volontà della persona offesa per ottenere un vantaggio ingiusto.
Le presunte rassicurazioni dell’imputato, peraltro, erano intervenute solo dopo che egli aveva raggiunto il suo scopo criminoso per cui non valgono a escludere la sussistenza dell’elemento psicologico.
Per il resto le censure del ricorrente attengono a profili di merito insindacabili in sede di legittimità.
In particolare secondo la Corte è inammissibile contestare la non applicazione della particolare tenuità del fatto in quanto la motivazione fornita dai Giudici di appello – che hanno ritenuto la condotta non tenue per le particolari modalità del fatto – sono logiche e ragionevoli.
Per questi motivi la Cassazione dichiara il ricorso inammissibile e conferma quindi la sentenza di appello condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali e ad una somma di denaro in favore della Cassa delle ammende.