Dott.ssa Rossella Di Martino

Sintesi

Esercitare, senza titolo, in modo continuativo, sistematico e organizzato un’attività professionale che, pur non essendo attribuita in via esclusiva a una determina professione, sia univocamente individuata come di competenza specifica di essa, integra gli estremi del delitto di esercizio abusivo della professione se realizzata con modalità tali da creare le oggettive apparenze di un’attività svolta da soggetto regolarmente abilitato.

Fatto

La dott.ssa A., che curava pratiche legali per la Sig.ra T., dopo la morte del marito a seguito di un’operazione chirurgica, la induceva a intentare una causa civile e chiedere il risarcimento del danno stabilendo che, in caso di esito favorevole, avrebbe ottenuto una percentuale in suo favore.
La Sig.ra T., non soddisfatta dell’operato della dott.ssa A., pertanto, le revocava il mandato.
Di talché A. pretendeva il pagamento di somme di denaro per l’attività di consulenza svolta, oltre ai contributi previdenziali (c.p.a.).
Il Tribunale di Orestano, all’esito di rito abbreviato, condannava A. per il delitto di tentata estorsione ex artt. 56  e 629 c.p. (capo a) e per il delitto di esercizio abusivo della professione ex art. 348 c.p. (capo b).
La sentenza veniva confermata dalla Corte d’appello in relazione al capo b), mentre, in relazione al capo a) il reato veniva derubricato in quello di tentata truffa aggravata ex artt. 56, 640, co. 2, n. 2 c.p. .
Avverso la sentenza di secondo grado insorgeva A. articolando due distinti ricorsi per Cassazione nei quali, tra i tanti, censurava l’insussistenza degli elementi costitutivi dei suddetti reati.
In relazione al capo a), secondo le difese del prevenuto, difettavano gli “artifici o raggiri” ai quali non poteva ricondursi l’accordo intercorso tra le parti nonché l’evento di profitto avendo i Giudici con esso confuso il lecito compenso richiesto per la prestazione professionale resa.
Rispetto al capo b), invece, non sussisteva alcun esercizio abusivo della professione in quanto l’attività svolta da A. sarebbe stato riconducibile al settore paralegale e non a quella di avvocato.
Inoltre la mera spendita del titolo di avvocato da parte di chi non la possieda non concretava la fattispecie in oggetto essendo necessaria, invece, ai fini della sua configurabilità, la realizzazione di un’attività svolta in forma professionale, in modo continuativo, sistematico ed organizzato.

La decisione

La Corte di Cassazione, con sent. 15423/2023, accoglie i ricorsi in relazione al capo a) e annulla la sentenza senza rinvio.
Secondo i Giudici di legittimità, infatti, la vicenda storica, per come ricostruita dai Giudici di merito, si era caratterizzata da forme più o meno esplicite e sicuramente ripetute di pressione psichica nei confronti della vittima.
Ciò tuttavia, pur configurando un comportamento discutibile sul piano deontologico ed etico, non ha ricadute sotto il profilo penalistico.
La condotta di A. infatti non configura né gli estremi della truffa né quelli della fattispecie estorsiva (per la quale A. era stata condannata in primo grado).
In quest’ultimo caso non essendo ravvisabile l’elemento della “costrizione mediante violenza o minaccia”.
In relazione alla truffa, invece, come correttamente censurato dalla ricorrente mancherebbero gli artifizi o raggiri che, secondo la tesi prevalente in giurisprudenza, devono consistere, rispettivamente, nella trasfigurazione della realtà esterna e nel subdolo ravvolgimento dell’altrui psiche.
Nel caso di specie, tuttavia, le condotte contestate manifestavano un’esplicita finalizzazione induttiva, piuttosto che ingannatoria.
Allo stesso tempo, secondo la sentenza in commento, non erano ravvisabili gli estremi della circostanza aggravante, la quale richiede l’aver ingenerato il timore di un pericolo “immaginario” e che si riferisce tradizionalmente a ben diverse manifestazioni criminologiche.

Con riferimento, tuttavia, alla condanna per il delitto di esercizio abusivo della professione (capo b), la stessa deve essere confermata.
Il Collegio condivide le censure di parte sul fatto che – nel rispetto del principio di sussidiarietà – per configurare tale fattispecie di reato è indispensabile la realizzazione di un’attività svolta in forma professionale, in modo continuativo, sistematico ed organizzato.
Rileva, tuttavia, che A. non si era limitata ad usare la qualifica di avvocato quanto piuttosto per ben nove mesi aveva svolto attività di consulenza in favore di T. (mirando a conseguire una percentuale del risarcimento del danno in sede civile).
Orbene la Corte è consapevole che non tutte le attività stragiudiziali sono riservate agli avvocati salvo però quando le stesse sono destinate a sfociare in un contenzioso giudiziario !
Giacché l’attività stragiudiziale esercitata dalla ricorrente era quindi connessa a quella giudiziaria civile ed essendosi tale esercizio prolungato per un periodo apprezzabile, in difetto di apposito titolo abilitativo, deve confermarsi la condanna per il reato di esercizio abusivo della professione.
Esercitare, senza titolo, in modo continuativo, sistematico e organizzato un’attività professionale che, pur non essendo attribuita in via esclusiva a una determina professione, sia univocamente individuata come di competenza specifica di essa, integra gli estremi del delitto di esercizio abusivo della professione se realizzata con modalità tali da creare le oggettive apparenze di un’attività svolta da soggetto regolarmente abilitato.
In ogni caso la sentenza di condanna deve essere comunque annullata con rinvio per la rideterminazione della pena in quanto la disposizione che ha introdotto un mutamento sanzionatorio in peius (L. 3/2018) non potrebbe applicarsi retroattivamente al fatto commesso in data anteriore in forza del principio di irretroattività ex art. 25 co 2 Cost.

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