IL CASO
La vicenda sottoposta all’esame della Cassazione trae origine da un ricorso proposto dalla madre avverso il provvedimento della Corte d’Appello che revocava l’assegnazione della casa coniugale, assegnazione disposta in suo favore poiché collocataria del figlio all’epoca minore, poiché, aveva ritenuto la Corte d’appello che il figlio era dedito allo spaccio di stupefacenti insieme alla madre. Sia il figlio che la madre furono tratti in arresto in ordine a tale fatto di reato motivo per cui, secondo il giudice di appello doveva essere considerato estinto ex lege l’obbligo di mantenimento a carico del marito e pertanto era venuto meno anche il presupposto dell’assegnazione della casa coniugale.
Prima di esaminare l’ordinanza nel merito è opportuno analizzare alcuni istituti connessi al caso di specie.
Analizziamo prima di tutto l’istituto del mantenimento disciplinato dall’articolo 143 comma 3 c.c. per il quale entrambi i genitori sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia.
Durante la fase di crisi del rapporto coniugale l’obbligo di cui all’articolo 143 comma 3 c.c. non viene meno ma si trasforma nell’obbligo di corresponsione di un assegno attribuito a titolo di mantenimento o a titolo di alimenti. A questo proposito è opportuno operare una distinzione tra mantenimento del coniuge e mantenimento dei figli.
Il mantenimento del coniuge è disciplinato dall’articolo 156 comma 1 c.c. secondo cui il giudice pronunciando la separazione stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri.
L’assegno di mantenimento non va confuso con l’assegno disposto in sede di divorzio. Infatti in sede di sepazione la funzione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge è quella di scongiurare un mutamento radicale causato dalla disgregazione del nucleo familiare, quindi si forniscono dei mezzi economici che permettono al coniuge economicamente più debole di adegua darsi alla nuova condizione. In sede di divorzio l’assegno divorzile assolve ad una funzione assistenziale di natura compensativa, perequativa.
Diverso è il mantenimento dei figli, infatti è noto che dalla rottura del rapporto di coniugio discende la regolamentazione dei rapporti con la prole. Nel caso di figli minorenni si applicherà l’articolo 337 ter c.c. che disciplina il regime di affidamento stabilendo al comma 1 che il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale. Al secondo comma stabilisce che il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, ivi compreso, in caso di temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, l’affidamento familiare.
Dalla lettura della norma si evince che la regola risiede nell’affidamento condiviso e quindi si tende a far prevalere il principio della bigenitorialità, solo quando vi sia un particolare rapporto conflittuale si propende verso l’affido esclusivo o anche super esclusivo.
Quanto al mantenimento dei figli, l’articolo 316 bis comma 1c.c. stabilisce che i genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo.
Dalla lettura della norma si evince che il dovere di mantenimento grava su entrambi i coniugi a prescindere dal regime di affidamento e a prescindere dalla collocazione del minore.
Nel caso di figli maggiorenni, come nel caso di specie, il 337 septies al comma 1 c.c. stabilisce che il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto.
Sul mantenimento del figlio maggiorenne la Cassazione è intervenuta più volte tra cui l’ultima volta nel 2020 puntualizzando quali presupposti devono essere presenti affinchè il figlio maggiorenne abbia diritto ad essere mantenuto da uno dei genitori. Tali presupposti sono la peculiare minorazione o debolezza delle capacità personali del figlio; l’eventuale prosecuzione di studi ultra liceali, quindi studi universitari o corsi di formazione, studi che devono avvenire con diligenza ed impegno; l’essere trascorso un lasso temporale ragionevolmente breve dalla conclusione degli studi tanto che sia impossibile per il figlio poter trovare lavoro; la mancanza di qualsiasi lavoro dopo aver effettuato non solo numerose ricerche ma anche dopo aver inviato più volte curriculm; l’aver trovato un lavoro non confacente con la preparazione personale del figlio tale che faccia ritenere ragionevole un rifiuto da parte dello stesso a voler intraprendere quel tipo di lavoro. Quelli appena enunciati sono i presupposti che devono sussistere affinchè il figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente abbia diritto ad un assegno di mantenimento.
Quanto all’assegnazione della casa coniugale, ossia la casa in cui si svolgeva la vita del nucleo familiare, di solito viene fatta a favore del genitore collocatario nei cui confronti sorge un diritto personale di godimento della casa stessa anche nel caso in cui non ne è il proprietario. Il 337 sexies comma 1 c.c. stabilisce che il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli.
Dalla lettura della norma si evince subito che il motivo su cui deve basarsi la scelta del giudice nell’assegnazione della casa è il particolare interesse dei figli, quindi la casa viene assegnata al fine di sostenere economicamente e moralmente i figli nel periodo in cui ne abbiano bisogno. Presupposto essenziale per l’assegnazione è la convivenza tra il figlio e il genitore assegnatario. L’eventuale cessazione della convivenza tra il genitore e il figlio maggiorenne anche economicamente non autosufficiente comporta l’estinzione del diritto dell’assegnatario a rimanere in quella casa.
Tutto ciò detto è possibile analizzare l’ordinanza della Cassazione n. 17075/2022 con cui la Corte ha dichiarato legittima la sentenza della Corte di Appello che aveva revocato l’assegnazione della casa coniugale poiché all’esito di una perquisizione domiciliare furono rinvenute delle sostanze stupefacenti comprensive di bilancino e soldi da cui appunto si evinceva una attività illecita. In seguito alla perquisizione furono tratti in arresto sia la madre che il figlio con l’accusa di spaccio di sostanze stupefacenti.
La Corte ritiene congrua la motivazione della sentenza con cui si revocava l’assegnazione della casa coniugale di proprietà del marito considerato che l’avvenuto arresto e gli esiti della perquisizione domiciliare costituivano gravi indizi di colpevolezza da cui si poteva desumere che il figlio non impegnava le proprie energie per cercare un lavoro onesto pertanto la mancata autosufficienza era imputabile a lui, motivo per cui non poteva gravare sul padre il mantenimento del figlio resosi negligente. Di conseguenza, dato che il figlio non aveva dimostrato alcun interesse ad intraprendere un lavoro onesto, il padre fu ritenuto più obbligato al mantenimento del figlio venendo meno anche i presupposti che avevano legittimato il provvedimento dell’assegnazione della casa coniugale.
Da sottolineare che sia la madre che il figlio dopo la perquisizione furono tratti in arresto ma non c’è stata ancora una sentenza di condanna definitiva e come noto l’imputato non può essere considerato colpevole fino ad una sentenza di condanna definitiva. Tuttavia nel caso di specie nonostante non sia intervenuta una sentenza di condanna definitiva non ha operato la presunzione di innocenza di cui all’articolo 27 della Costituzione perché i fatti storici cui ha fatto riferimento la Corte di Appello relativamente all’arresto del figlio e della madre per detenzione di sostanze stupefacenti non risultano essere stati contestati dalle parti resistenti in appello né è stato provato il contrario da parte del figlio. Infatti, nel momento in cui il padre ha agito per far revocare l’assegnazione della casa coniugale sulla base che il figlio fosse dedito ad attività illecite, spettava al figlio dimostrare che si stava adoperando per trovare una sistemazione lavorativa.
In conclusione la Corte afferma un orientamento oramai consolidatosi e cioè che ai fini del riconoscimento dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non economicamente autosufficienti o del diritto di assegnazione della casa coniugale, il giudice di merito deve valutare con prudente apprezzamento caso per caso ossia con un criterio di rigore proporzionalmente crescente in rapporto dell’età dei beneficiari, le circostanze che giustificano il permanere di questo obbligo o il permanere dell’assegnazione dell’immobile stesso, fermo restando che tale obbligo non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e misura poiché il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e dunque di un percorso di formazione nel rispetto delle sue capacità ed inclinazioni purchè compatibili con le condizioni economiche dei genitori.
Nel caso di specie non va confuso il motivo dell’arresto e quindi dell’imputazione con la causa di revoca dell’assegnazione, infatti in questo caso la Corte conferma è vero il provvedimento della Corte di Appello ma puntando l’attenzione sul fatto che sulle dichiarazioni rese dal padre non vi è stata nessuna controprova adeguata, non sono stati contestati i fatti né è stato provato il contrario e tutto ciò ha fatto presumere che sia il figlio che la madre fossero colpevoli.