Avv. Federica Posta

1. La massima

In  tema di reati sessuali, non assumono alcun rilievo scriminante eventuali giustificazioni fondate sulla circostanza che l’agente, per la cultura mutuata dal proprio paese d’origine, sia portatore di una diversa concezione della relazione coniugale e dell’approccio al rapporto sessuale, in quanto la difesa delle proprie tradizioni deve considerarsi recessiva rispetto alla tutela di beni giuridici che costituiscono espressione di diritti fondamentali dell’individuo e che in tema di cause di giustificazione, lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell’esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall’ordinamento dello Stato di provenienza.

2. Note preliminari.

Con la sentenza in oggetto, la giurisprudenza di legittimità torna a pronunciarsi in merito alla possibilità di invocare la scriminante socio-culturale dell’esercizio del diritto nell’accertamento dei reati che offendono l’identità sessuale.
Orbene, prima di addentrarci nelle considerazioni conclusive, è d’uopo tracciare il percorso logico-argomentativo seguito dalla Suprema Corte di Cassazione per la definizione del giudizio sottoposto al suo esame.

3. Il caso

La vicenda trae origine dalla condanna pronunciata dal giudice di gravame che, confermando quanto già statuito nel giudizio di primo grado, condannava l’imputato A.A., di nazionalità straniera, per i delitti a lui ascritti riconducibili alle condotte incriminatrici di cui agli artt. 572 c.p.  e 609 bis c.p. – rispettivamente reati di maltrattamenti contro familiari e violenza sessuale aggravata – perpetrati nei confronti della giovane moglie.
Giunto in Cassazione, il ricorrente sollevava, a sua difesa, due motivi di doglianza.
Con il primo motivo, denunciava l’omessa nomina di un traduttore per la comprensione della pronuncia di primo grado e degli atti processuali prodromici.
Nello specifico faceva emergere che, contrariamente a quanto accaduto nel  giudizio cautelare ove si era proceduto all’assistenza di un mediatore culturale, nei successivi gradi di giudizio, tale diritto non aveva trovato riconoscimento alcuno e che, pertanto, potesse evidenziarsi una puntuale violazione delle norme che impongono tale formalità.
Con il secondo motivo di impugnazione, inoltre, rilevava la mancanza di dolo in ordine alla ricostruzione dei fatti costituenti reato, osservando, tra l’altro, che l’inidoneità a concepire il disvalore delle sue condotte potesse costituire motivo legittimo per invocare a sua discolpa la scriminante dell’esercizio del diritto ex art. 51 c.p. .

4. Le argomentazioni giuridiche.

Con un puntuale intervento ermeneutico, il Giudice di legittimità rigetta il ricorso in quanto infondato.
In relazione alla prima doglianza conferma quanto già statuito in sede di giudizio di merito deducendo che, fin dalla notifica dei primi atti processuali, l’imputato avesse in realtà precisa comprensione della lingua italiana e che, eventualmente, la nomina di un interprete fosse tuttalpiù necessaria per la persona offesa dal reato, anch’essa di nazionalità straniera.
La Corte di Cassazione rileva, altresì, che l’eventuale legittimazione a dedurre la violazione dell’obbligo di traduzione della sentenza ex art. 143 c.p.p.  – per consentire all’imputato che non comprenda la lingua italiana l’esercizio di un autonomo potere d’impugnazione – costituisce un’incombenza personale dell’imputato che, peraltro, avrebbe potuto beneficiare della decorrenza del termine di impugnazione dal momento della notifica della sentenza tradotta nella sua lingua originaria.
Nel caso in esame, tuttavia, non vi era stata alcuna doglianza personale dell’imputato bensì solo l’atto di appello del difensore di fiducia a cui non si estende l’eccezione dell’imputato.
In considerazione al secondo dei motivi di doglianza, gli Ermellini considerano infondata la censura sollevata dal ricorrente in ordine all’assenza di qualsivoglia forma di rappresentazione e volontà nella commissione dei reati ascritti nonché assolutamente illegittima la possibilità di rendere applicabile, nell’ipotesi fattuale, una scriminante socio-culturale.
Orbene, per una migliore comprensione delle conclusioni, è d’uopo procedere ad un’attenta disamina della scriminante dell’esercizio del diritto, disciplinata dall’art. 51 c.p.
Conformemente a tale disposizione “L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità’’.
La ratio della norma emerge in tutta la sua evidenza: la stessa tende a preservare il principio generale di non contraddizione.
Non sussistono, difatti, motivi in virtù dei quali un soggetto, seppur legittimato ad invocare un suo diritto, debba esser al contempo incriminato da una norma che disciplina penalmente il fatto concretamente realizzatosi quale conseguenza dell’esercizio del suo legittimo interesse.
Trattasi di una scriminante la cui collocazione in fonti legislative, regolamentari e provvedimenti di autorità consente di escludere qualsivoglia antigiuridicità nella condotta apparentemente incriminata.
Prodromica alla disamina in oggetto è la questione dell’esatta soluzione delle ipotesi in cui l’esercizio di un diritto da parte del suo titolare possa sincerarsi quale offesa al bene giuridico contrastante dando vita ipso iure alla commissione di un reato.
Un problematico binomio potrebbe  riscontrarsi nelle ipotesi di esercizio del diritto di cronaca, oggetto di espressa tutela ad opera dell’art. 21 della Costituzione , e reato di diffamazione ex art. 595 c.p.
Può chiaramente evidenziarsi come l’esercizio di un diritto di tale portata possa sollevarsi quale scriminante ex art. 51 c.p. in tutte le ipotesi in cui abbia ad oggetto una notizia connotata da caratteri veritieri e che sia, generalmente, di interesse pubblico ovvero la cui conoscenza sia indispensabile ad escludere la rilevanza penale della condotta ai fini dell’integrazione del reato di diffamazione.
Per quanto è di nostro interesse, le dinamiche sottese all’applicabilità della scriminante ex art. 51 c.p. non possono che involgere un esame sulla categoria dei cosiddetti reati culturalmente orientati, da intendersi quali fattispecie relative a condotte che, seppur accettate nei paesi di provenienza, siano astrattamente ascrivibili ad ipotesi delittuose previste nel nostro ordinamento giuridico.
Le maggiori problematiche in ordine al quesito sotteso all’esame della Corte, hanno avuto riscontro relativamente ai reati a sfondo sessuale, tenendo debitamente conto della loro carica offensiva.
Sul punto la dottrina, quasi a sviscerarsi sulla questione particolarmente complessa, registra due netti orientamenti, di seguito riportati.
Un primo assetto, da considerarsi assimilazionista, facendo perno sulla necessaria integrazione dello straniero all’interno del tessuto sociale, considera non invocabile una siffatta scriminante socio-culturale ai fini dell’esclusione della punibilità. D’altronde, osservano i fautori di tale connotazione, la rinuncia alla non invocabilità dell’art. 51 c.p. in relazione alla propria condizione culturale costituirebbe la contropartita rigida alla loro perfetta integrazione.
Contrariamente, si registra un secondo approccio, da connotarsi filone prettamente pluralista, che in virtù di una  maggiore sensibilità alle diversità  culturali, manifesta una certa apertura alle richieste identitarie, riconoscendo in capo a taluni soggetti stranieri la possibilità di invocare una consuetudine scriminante.
Al di là delle considerazioni prettamente descrittive dei due orientamenti, interviene la giurisprudenza a diramare qualsivoglia contrasto: in un’ottica prevalentemente garantista, gli Ermellini negano qualsiasi apertura a  soluzioni assolutorie nei confronti del reo culturalmente orientato.
Sulla scorta di quanto già tracciato in passato, con la pronuncia in commento, la Suprema Corte di Cassazione torna a ribadire un principio cardine nel sistema penale ovvero che non possa riconoscersi la possibilità di invocare una scriminante socio-culturale  laddove una siffatta legittimazione debba “ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell’ordinamento italiano, in cui l’agente ha scelto di vivere, attesa l’esigenza di valorizzare la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l’instaurazione di una società civile multietnica’’.

5. Considerazioni conclusive

Coerentemente al percorso già individuato dalla giurisprudenza che, in più occasioni, ha ribadito drasticamente di dover eliminare ogni possibilità di utilizzare quale strategia difensiva la scriminante socio-culturale, è parere dello scrivente che, una siffatta scelta sembrerebbe amalgamarsi benevolmente con i valori insiti della nostra civiltà.
Un’eventuale circostanza di apertura in tal senso, potrebbe, peraltro, innescare meccanismi di illegittimità ponendosi, tra l’altro, in un ipotetico contrasto con quanto delineato dall’art. 3 c.p. nella parte in cui impone la legge penale italiana a tutti coloro, cittadini e stranieri, che trovano collocazione entro i confini del territorio italiano.
Tale conclusione consentirebbe di apparir coerenti con i dettami delineati dall’art. 3 della Carta Costituzionale laddove  rende tutti eguali dinanzi la legge, senza alcuna distinzione culturale, impegnando, altresì, la Repubblica nel difficile compito di rendere effettiva la reclamata eguaglianza.

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